sabato 4 maggio 2013

QUADRATURA DEL CERCHIO




Fuori della location (eh si, noi le sale congressi le chiamiamo location, fa fino e non impegna come direbbe il mio amico Stanislao, che dio abbia in gloria i suoi genitori) di Busan i massimi esperti sembravano preda di una delle più virulente epidemie di orticaria. Chi si grattava di qua, chi di la. Ma tutti non tralasciavano una grattatina al cuoio capelluto. Sebbene sia certo che la stimolazione dello stesso abbia benefici notevoli sulla ricrescita del capello  ho il vago sospetto che l’attività non fosse dovuta all’incipiente calvizie ma al forforoso tentativo di conciliare gli interventi di cooperazione con quelli del settore privato così come richiesto nel corso della Conferenza.

Tralasciamo i risultati ottenuti dalle precedenti conferenze, sospendiamo il giudizio sui benefici tricologici del massaggio cutaneo e concentriamoci sui rapporti tra i due corni del problema e che potrebbero essere riassunti nella semplice domanda: possono coesistere le due visioni? Si, credo di si, sebbene non sia facile trovare una soluzione. Non che si arrivi alle difficoltà concettuali della quadratura del cerchio, ma ci si avvicina molto.  E non tanto perché non sia facile trovare dei punti di contatto ma perché la difficoltà resta, tutta, nel conciliare due visioni oramai contrapposte e l’una contro l’altra armate. Keynes vs Smith, il diavolo e l’acqua santa, lo ying e lo yang.  Se dovesse prevalere, come parrebbe, una visione del mercato quale unica forza regolatrice dello sviluppo allora ci si troverebbe di fronte ad un dilemma irrisolvibile, poiché il mercato dovrebbe rappresentare l’unica forza motrice dello sviluppo ripudiando, nella sua accezione più pura e classica, qualsiasi intervento dello Stato visto, quest'ultimo, come impedimento al libero agire dell’uomo le cui capacità sono il motore del progresso economico, e non solo. E’ quindi l’economia, parrebbe, il fine ultimo della natura umana, la produzione di merci e il loro libero scambio, regolato dalla domanda e dall'offerta  e che, per meccanismi che non oseremmo definire darwiniani, finisce con trovare un equilibrio. Così come in natura l’uso delle risorse determina  un equilibrio dinamico delle popolazioni così il mercato con le sue, poche e semplici regole, dovrebbe condurre ad un equilibrio ciclico che passa da una fase log ad un plateau e, per deplezione delle risorse, alla decadenza. Il ciclo naturale di una popolazione, quindi, riprende all'infinito  Ma il perpetuarsi di tale meccanismo in natura, nella sua semplicità, basato su poche, pochissime regole non è in realtà frutto delle regole ma dalle eccezioni. Ben lo sa chi s’occupa di genetica scienza questa che individua nella mutazione, e non nella  stabilità, il motore dell’adattamento. Ma l’economia, sfortunatamente, non segue le lineari logiche della biologia, ne della scienze umane. Segue regole tutte sue, che sfuggono alla comprensione di chi tali regole crede, e pensa, di dominare.

Come che sia, e se le teorie dei Chigaco boys fossero applicate alla lettera, il dettato di Busan non avrebbe significato alcuno poiché libero mercato, nell'accezione dei discoli di Chicago, tiene in non cale alcune variabili sociali che, al contrario, sono fondamenta dell’azione della cooperazione allo sviluppo e, più in generale, del vituperato Stato. Se la promozione di un maggior coinvolgimento del settore privato nelle politiche di sviluppo dei PVS (espressione datata e detestabile) dovesse ispirarsi  al modello neoliberista, così come coniugato da Friedmann, questo dovrebbe obbligatoriamente passare da un concetto neo colonialista di appropriazione  delle risorse. Cosa che, in parte, avviene; basti pensare al fenomeno del land grabbing. Ed anche questo farebbe parte, secondo le teorie neoliberiste, delle dinamiche del libero mercato. Ma quindi il libero mercato, nella sua accezione moderna, continuerebbe a basarsi sulle possibilità offerte a chi ha già. Si potrebbe obiettare, si obietta, che il mercato consente a chiunque – la teoria delle noccioline americane – di passare da uno stato di povertà ad uno di ricchezza e che per effettuare tale passaggio basterebbe utilizzare la libera iniziativa, metterne a frutto le infinite possibilità di commercio – il mercato null'altro è che smercio di beni di infinita natura  e quindi di infinite possibilità – se non fosse che il mercato si basa sulla disponibilità di capitali, anch'essi beni commerciabili qualora se ne ravvisasse la convenienza. Il punto è che tale convenienza non esiste se non esiste un capitale tale da garantirne tale effetto. E quindi, il capitale pretende la fornitura di garanzie che spesso coincidono con il capitale stesso.

Al di fuori dei circuiti finanziari l’unico prestatore di garanzie, in passato, è stato proprio lo Stato il cui intervento è però adesso considerato alla stregua del fumo negli occhi. Ma anche lo Stato presta o fornisce le garanzie di cui il mercato ha bisogno chiedendo in cambio una contropartita che nel linguaggio comune si concretizzano in una sola parola: tasse.  In poche parole io ti do le garanzie che il mercato richiede se tu mi restituisci parte dei tuoi guadagni; il concetto non è molto differente da quello delle banche ma restituire parte dei guadagni sotto forma di interessi appare legittimo e condivisibile; pagare le tasse, no. Se vi è qualcosa di più inviso dell’olio di ricino queste sono proprio le tasse. Eppure, mentre l’interesse remunera un capitale le tasse fanno di più: remunerano il capitale e inoltre vanno, o dovrebbero andare, al servizio della comunità. Ma le tasse fanno ancor più, esse infatti  pagano servizi forniti da capitali privati attivando il mercato; sono quindi un sistema di finanziamento del mercato stesso. L’abolizione delle tasse, così come auspicato da alcuni, non consente quindi di finanziare proprio quel mercato che ha in odio lo Stato. Parrebbe che ci si trovi di fronte al classico caso del cane che si morde la coda. Ma sono proprio le tasse che pagano quelle attività che si vorrebbero avviare, attività necessarie a porre le basi per un più sicuro intervento del capitale privato. Da un lato il capitale chiede la formazione di una rete di protezione dall'altro non vuole partecipare alla sua formazione.

E allora? Come possono essere integrate le diverse concezioni? Basterebbe, forse, dar aria al vecchio cappotto di Keynes ricordando che lo Stato ha ancora un ruolo economico e che questo è tanto più importante quanto più la società è in crisi finanziaria. E' su un modello keynesiano che si sono sviluppate le società moderne così come le conosciamo. Il cappotto di Keynes sarà anche polveroso ma non v'è traccia di forfora.

3 commenti:

  1. Segnalo un articolo di Krugman "L'austerità è finita ko" .... http://rassegna.esteri.it/EcoTiffPilot/Default.aspx?FN=D:\Eco\Img\1WLP\1WLPDHP?.TIF&MF=1&SV=Rassegna%20Stampa&PD=1 è chiaro che il mercato non basta più specialmente se linterpretazione del mercato viene dai più ricchi...

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  2. se andate a http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2013/04/27/lausterity-finita-ko.html?ref=search forse è meglio. Almeno si apre senza fatica. :-)

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  3. consiglio il libro "Poor Economics" della Esther Duflo e Abhijit Banerjee, due economisti del MT che hanno creato il "Poverty Action Lab". Anche il sito del loro corso online con le videolezioni è molto interessante "MITx: 14.73x The Challenges of Global Poverty"

    Il link è : https://www.edx.org/courses/MITx/14.73x/2013_Spring/info

    Saverio


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