venerdì 31 maggio 2013

POLLO ARROSTO



Sai ched’è la statistica? È ’na cosa
che serve pe’ fa’ un conto in generale
de la gente che nasce, che sta male,
che more, che va in carcere e che sposa.

Tra l'altro, ma non solo. A parte a fa un conto in generale la statistica è uno degli strumenti che possiede un Governo per decidere le sue politiche che, se non vado errato, dovrebbero ipoteticamente essere orientate a soddisfare i bisogni del governato, del cittadino insomma. Lo strumento diventa un vero strumento solo quando la statistica è indipendente dal Governo e registra freddamente dati separati dalle opinioni (o dalle politiche, il che è lo stesso). Senza i dati non sapremo quanta gente che nasce, che sta male, e non sapremmo nemmeno perché nasce e perché sta male. Sostiene Trilussa che

 secondo le statistiche d’adesso
risurta che te tocca un pollo all’anno:
e, se nun entra ne le spese tue,
t’entra ne la statistica lo stesso

perché c’è un antro che ne magna due. 

Secondo Des McHale, «l’umano medio ha una mammella e un testicolo». Il che, a rigore, è vero seppur palesemente falso. E dimostra come la statistica non solo sia uno strumento importante ma come il suo uso possa essere assai pericoloso qualora non venga correttamente gestito. Il problema delle statistiche è quindi difficile e non si limita alla complessa scienza della raccolta e analisi dei dati anzi, si potrebbe dire che questo è un aspetto secondario. Quello che importa è l'uso o il loro non uso. La decisione di raccogliere ed analizzare i dati, come farlo e di come analizzarli  è in realtà una decisione politica che ha ripercussioni sul cittadino. Così, la mancanza di dati o la loro pubblicazione parziale può divenire un potente strumento di gestione del potere tramite il quale dimostrare, come il poeta, che ognuno mangia un pollo ma tu resti senza mentre un altro ne mangia due.  Come dice Livraghi nelle sue premesse al libro di Huff Mentire con le statistiche (ed. M&A) "...Ma di dati, più o meno attendibili, siamo continuamente inondati. E, anche quando in un’analisi o in un commento non viene specificamente indicato un numero, spesso si trovano affermazioni basate su qualcosa che ha origine da una statistica, mentre nessuno ha la bontà di dirci quale sia la fonte e come si sia arrivati a stabilire se davvero gli uomini preferiscono le bionde ..."
Lo stesso principio vale nella lotta alla povertà. Gli stessi dati dimostrano, a seconda di chi li usa, che un Paese è uscito dalla povertà o, al contrario, che i livelli di questa sono aumentati. Le due conclusioni fanno gioco a pochi certamente non a tutti.


sabato 4 maggio 2013

QUADRATURA DEL CERCHIO




Fuori della location (eh si, noi le sale congressi le chiamiamo location, fa fino e non impegna come direbbe il mio amico Stanislao, che dio abbia in gloria i suoi genitori) di Busan i massimi esperti sembravano preda di una delle più virulente epidemie di orticaria. Chi si grattava di qua, chi di la. Ma tutti non tralasciavano una grattatina al cuoio capelluto. Sebbene sia certo che la stimolazione dello stesso abbia benefici notevoli sulla ricrescita del capello  ho il vago sospetto che l’attività non fosse dovuta all’incipiente calvizie ma al forforoso tentativo di conciliare gli interventi di cooperazione con quelli del settore privato così come richiesto nel corso della Conferenza.

Tralasciamo i risultati ottenuti dalle precedenti conferenze, sospendiamo il giudizio sui benefici tricologici del massaggio cutaneo e concentriamoci sui rapporti tra i due corni del problema e che potrebbero essere riassunti nella semplice domanda: possono coesistere le due visioni? Si, credo di si, sebbene non sia facile trovare una soluzione. Non che si arrivi alle difficoltà concettuali della quadratura del cerchio, ma ci si avvicina molto.  E non tanto perché non sia facile trovare dei punti di contatto ma perché la difficoltà resta, tutta, nel conciliare due visioni oramai contrapposte e l’una contro l’altra armate. Keynes vs Smith, il diavolo e l’acqua santa, lo ying e lo yang.  Se dovesse prevalere, come parrebbe, una visione del mercato quale unica forza regolatrice dello sviluppo allora ci si troverebbe di fronte ad un dilemma irrisolvibile, poiché il mercato dovrebbe rappresentare l’unica forza motrice dello sviluppo ripudiando, nella sua accezione più pura e classica, qualsiasi intervento dello Stato visto, quest'ultimo, come impedimento al libero agire dell’uomo le cui capacità sono il motore del progresso economico, e non solo. E’ quindi l’economia, parrebbe, il fine ultimo della natura umana, la produzione di merci e il loro libero scambio, regolato dalla domanda e dall'offerta  e che, per meccanismi che non oseremmo definire darwiniani, finisce con trovare un equilibrio. Così come in natura l’uso delle risorse determina  un equilibrio dinamico delle popolazioni così il mercato con le sue, poche e semplici regole, dovrebbe condurre ad un equilibrio ciclico che passa da una fase log ad un plateau e, per deplezione delle risorse, alla decadenza. Il ciclo naturale di una popolazione, quindi, riprende all'infinito  Ma il perpetuarsi di tale meccanismo in natura, nella sua semplicità, basato su poche, pochissime regole non è in realtà frutto delle regole ma dalle eccezioni. Ben lo sa chi s’occupa di genetica scienza questa che individua nella mutazione, e non nella  stabilità, il motore dell’adattamento. Ma l’economia, sfortunatamente, non segue le lineari logiche della biologia, ne della scienze umane. Segue regole tutte sue, che sfuggono alla comprensione di chi tali regole crede, e pensa, di dominare.

Come che sia, e se le teorie dei Chigaco boys fossero applicate alla lettera, il dettato di Busan non avrebbe significato alcuno poiché libero mercato, nell'accezione dei discoli di Chicago, tiene in non cale alcune variabili sociali che, al contrario, sono fondamenta dell’azione della cooperazione allo sviluppo e, più in generale, del vituperato Stato. Se la promozione di un maggior coinvolgimento del settore privato nelle politiche di sviluppo dei PVS (espressione datata e detestabile) dovesse ispirarsi  al modello neoliberista, così come coniugato da Friedmann, questo dovrebbe obbligatoriamente passare da un concetto neo colonialista di appropriazione  delle risorse. Cosa che, in parte, avviene; basti pensare al fenomeno del land grabbing. Ed anche questo farebbe parte, secondo le teorie neoliberiste, delle dinamiche del libero mercato. Ma quindi il libero mercato, nella sua accezione moderna, continuerebbe a basarsi sulle possibilità offerte a chi ha già. Si potrebbe obiettare, si obietta, che il mercato consente a chiunque – la teoria delle noccioline americane – di passare da uno stato di povertà ad uno di ricchezza e che per effettuare tale passaggio basterebbe utilizzare la libera iniziativa, metterne a frutto le infinite possibilità di commercio – il mercato null'altro è che smercio di beni di infinita natura  e quindi di infinite possibilità – se non fosse che il mercato si basa sulla disponibilità di capitali, anch'essi beni commerciabili qualora se ne ravvisasse la convenienza. Il punto è che tale convenienza non esiste se non esiste un capitale tale da garantirne tale effetto. E quindi, il capitale pretende la fornitura di garanzie che spesso coincidono con il capitale stesso.

Al di fuori dei circuiti finanziari l’unico prestatore di garanzie, in passato, è stato proprio lo Stato il cui intervento è però adesso considerato alla stregua del fumo negli occhi. Ma anche lo Stato presta o fornisce le garanzie di cui il mercato ha bisogno chiedendo in cambio una contropartita che nel linguaggio comune si concretizzano in una sola parola: tasse.  In poche parole io ti do le garanzie che il mercato richiede se tu mi restituisci parte dei tuoi guadagni; il concetto non è molto differente da quello delle banche ma restituire parte dei guadagni sotto forma di interessi appare legittimo e condivisibile; pagare le tasse, no. Se vi è qualcosa di più inviso dell’olio di ricino queste sono proprio le tasse. Eppure, mentre l’interesse remunera un capitale le tasse fanno di più: remunerano il capitale e inoltre vanno, o dovrebbero andare, al servizio della comunità. Ma le tasse fanno ancor più, esse infatti  pagano servizi forniti da capitali privati attivando il mercato; sono quindi un sistema di finanziamento del mercato stesso. L’abolizione delle tasse, così come auspicato da alcuni, non consente quindi di finanziare proprio quel mercato che ha in odio lo Stato. Parrebbe che ci si trovi di fronte al classico caso del cane che si morde la coda. Ma sono proprio le tasse che pagano quelle attività che si vorrebbero avviare, attività necessarie a porre le basi per un più sicuro intervento del capitale privato. Da un lato il capitale chiede la formazione di una rete di protezione dall'altro non vuole partecipare alla sua formazione.

E allora? Come possono essere integrate le diverse concezioni? Basterebbe, forse, dar aria al vecchio cappotto di Keynes ricordando che lo Stato ha ancora un ruolo economico e che questo è tanto più importante quanto più la società è in crisi finanziaria. E' su un modello keynesiano che si sono sviluppate le società moderne così come le conosciamo. Il cappotto di Keynes sarà anche polveroso ma non v'è traccia di forfora.

mercoledì 1 maggio 2013

AGRICOLTURA - 1


L’agricoltura, nella sua più semplice definizione, è la scienza di produrre alimenti ovvero prodotti anche non alimentari. Spesso agronomia e agricoltura vengono usati come sinonimi ma in realtà il primo indica la scienza applicata alla produzione mentre agricoltura ha assunto un significato più tradizionale indicando l’insieme delle tecniche tradizionali sviluppatesi nel corso della sua storia.

Quale sia il termine corretto per indicare il processo produttivo è di tutta evidenza che esso non possa più essere limitato alla mera attività di produzione primaria ma deve comprendere una analisi multilivello di diversi fattori che si integrano tra di loro, pertanto l’agricoltura non andrebbe trattata diversamente da un qualsiasi processo economico il cui fine ultimo è la produzione di benessere sensu lato.

I motivi che hanno fermato lo sviluppo agricolo africano sono molteplici e ben conosciuti, ripetere qui quali essi siano non appare opportuno. Resta il fatto che nel suo complesso, e nonostante che dia impiego a ben più della metà della popolazione africana, essa non sia capace di contribuire allo sviluppo economico dell’area. Per anni considerato settore d’elezione per le diverse agenzie di cooperazione, nel quale hanno investito più di ogni altro settore, nell'ultimo decennio ha visto un calo d’interesse e di finanziamenti a causa dei risultati del tutto scoraggianti e, nella migliore delle ipotesi, non sostenibile. Gli esempi, anche all'interno della stessa cooperazione italiana, sono innumerevoli. Tra le concause di tali fallimenti si deve comunque sottolineare che un qualsiasi intervento di grande respiro, sia esso un perimetro irriguo o una riforma fondiaria, non può esaurirsi nell'arco temporale determinato dal risultato ma dai vincoli amministrativi finanziarie. Ad esempio la cooperazione italiana lavora su un ciclo di bilancio di tre anni e non sull'effettivo raggiungimento dell’obiettivo specifico che in agricoltura deve, gioco forza, seguire ritmi che non sono quelli amministrativi ma biologici-produttivi (si pensi al ciclo colturale di un frutteto) La difficoltà di avviare un processo di sviluppo economico partendo dall'agricoltura è ben noto. Tuttavia, le diverse ricette che si sono susseguite s’incentrano su un solo semplice concetto: l’agricoltura africana deve produrre di più e meglio, i suoi prodotti devono entrare nel grande flusso del commercio internazionale e così, come d’incanto, l’Africa dovrebbe uscire dalla povertà.